Saggezza, follia e utopia

Cultura e sapienza non bastano per essere saggi

Vi sono molte ragioni per considerare la Saggezza un approdo del tutto ignoto in questo periodo storico di grandi sommovimenti sociali, di grandi attese e di irrequietezza sfrenata. Una saggezza che talvolta si incontra fino a confondersi con l’utopia e talaltra con essa duramente si scontra. Ma è proprio impossibile sperare?

D. D. B. (Revista massonica svizzera febbraio 2004)

Cos’è la Saggezza? Erasmo da Rotterdam, coltivatore di utopie e di amicizie con utopisti come Tommaso Moro, seminatore instancabile di dubbi, beffardo apologeta della follia al punto da considerarla motore di ogni carica vitale e condizione prima per l’esistenza del mondo, tanto da relegare la saggezza nel ruolo mortificante di «freno che intristisce e paralizza », paradossalmente fu un saggio. La sua vita di apolide per elezione (ego mundi civis esse cupio), fu contrassegnata da molte contraddizioni: nel mentre componeva l’ «Elogio della Follia», il più famoso e più caustico tra i suoi lavori letterari, dichiarava la propria obbedienza alla ragione e la considerava fondamentale obiettivo della sua vita: una vita dedita interamente alla lotta contro l’ignoranza e alla esaltazione della cultura. Con i suoi comportamenti ed i suoi scritti, esercitava il difficile mestiere di saggio e faceva comprendere quanto fosse difficile definire la saggezza e imprigionarla in schemi teorici. Erasmo con le sue apparenti contraddizioni, scorgeva un’area di comune dominio in saggezza e follia. Nietzsche non doveva avere molta stima di ciò che ai suoi tempi si riteneva fosse la saggezza, se fa dire impietosamente a Zarathustra: «Voi tutti, saggi illustri, avete servito il popolo e la superstizione del popolo! – e non la verità… Allo stesso modo, il padrone lascia fare i suoi schiavi e si diletta alla loro tracotanza… colui che è odioso al popolo è come un lupo per i cani: è lo spirito libero, il nemico della catena, il non adoratore, randagio pei boschi… perché la verità è qui: qui infatti è il popolo! Guai, guai a colui che cerca!» Parole che accusano la falsa saggezza e fanno intendere quanto quella vera sia virtù rara, spesso assai lontana da coloro che sembrano professarla.

E adesso, si può essere saggi al giorno d’oggi? Che cosa intendiamo per saggezza? Ha essa qualcosa in comune con il sapere, con la conoscenza, con la perfezione, con la virtù? O è un modo di essere che fa distinguere un individuo dagli altri a motivo dell’equilibrio e della serenità del suo agire? Nicola Abbagnano, con la semplicità e la chiarezza che ha sempre distinto il suo modo di esprimersi, ha scritto qualche anno fa: «Il saggio non è colui che si isola in una pretesa perfezione, ma chi vive in mezzo agli altri realizzando un grado di accordo e di simpatia umana che lo rende equilibrato e sereno». Cultura e sapienza, quindi, non bastano ad un uomo per essere saggio. E la saggezza, apparendo e scomparendo, mutando sembianze ogni volta, sembra voler sfuggire ad ogni definizione.

Vivere moralmente il sapere

Saggio non è colui che sa, ma, come affermava Socrate, colui che sa di non esserlo. La saggezza non può essere confusa né con la sapienza né con la conoscenza, sebbene ambedue  concorrono al suo fondamento: è semmai il risultato della fusione armonica di quelle e di altre qualità; una fusione ottenuta vivendo intensamente ogni giorno, in equilibrio ed in pace con noi e con il mondo. Non è un sapere particolare, ma la risultante attiva di tutti saperi possibili che confluiscono in un unico sapere fondamentale per la vita umana. Per essere saggi non basta sapere cose diverse, bisogna anche essere capaci di vivere consapevolmente tale sapere.

La saggezza non è una dote naturale: è una virtù che si acquisisce con l’esperienza. È legata alla vita e quindi anche alla cultura che della vita è la più significativa espressione. Mi riferisco, ovviamente, alla cultura intesa come patrimonio comune di una collettività, che appartiene a tutti, e che è la complessa combinazione degli usi, dei costumi, delle consuetudini, delle esperienze, delle conoscenze, delle credenze, delle leggi che nel loro insieme riescono a caratterizzare un popolo ed un tempo. A quella cultura, insomma, alla quale si deve la costruzione dei veri sistemi di valori – da quelli morali a quelli politici, da quelli religiosi a quelli simbolici e rituali – con cui viene regolata la vita sociale ed individuale ed è in grado di trasformare una moltitudine di uomini in un popolo.

Così intesa la saggezza può essere considerata la forma più alta della cultura che si caratterizza non come un serbatoio colmo di informazioni e di idee, ma come un’energia regolatrice ed equilibratrice capace di orientare la volontà e di assisterla nel momento delle decisioni difficili. In questo senso la saggezza è una speciale forma organizzativa della mente: essa si costruisce progressivamente in seguito ad un singolare processo, assai simile alla metabolizzazione, nel quale la ragione, l’intelletto, i sentimenti, tutte le speciali sensibilità individuali e i diversi stati d’animo, svolgono la funzione di un sistema organico in grado di metabolizzare il nutrimento ricevuto sotto forma di esperienze e di trasformarlo in nuova sostanza che arricchisce e fortifica la personalità umana. È come dire che la saggezza non può essere considerata il risultato di una meccanica giustapposizione delle esperienze che si susseguono nel tempo. Essa non è l’automatico risultato di un rapporto di causa ed effetto in base al quale ad una stessa esperienza corrispondono identiche modificazioni del quadro psichico. È vero esattamente il contrario: il misterioso crogiolo della nostra mente si comporta in modo difficilmente prevedibile. Infatti, nel metaforico processo di metabolizzazione cui ho fatto cenno, tutti quei fattori che lo condizionano hanno un peso ed una influenza sempre diversa con risultati mutevoli. Si tratta di fattori in continuo mutamento e quindi anch’essi sempre diversi nel tempo, quali le varie forme di sensibilità morale, religiosa, artistica, affettiva, o le varie forme dell’intelletto, dalla capacità di riflessione a quella dell’apprendimento. Ad essi si aggiungono le variabili di uno stato d’animo suscettibile di essere influenzato anche da avvenimenti esterni del tutto estranei all’esperienza in corso. Tutti fattori sempre diversi tra loro, sempre diversi da individuo ad individuo e, nello stesso individuo, sempre diversi nel tempo. Può così accadere che una medesima esperienza possa segnare un uomo per il resto della sua vita e possa scivolar via sulle spalle di un altro senza lasciar traccia, più o meno come uno scroscio d’acqua su una superficie impermeabile.

La saggezza non chiede istruzione

In questo mondo c’è più bisogno di uomini saggi che di uomini abili, colti ed istruiti. Per essere tali può bastare informarsi, assoggettarsi ad una disciplina di studi che ci consenta di acquisire nuove conoscenze e nuove abilità. Per essere saggi tutto ciò non è necessario e, se lo fosse, non basterebbe. Fortunatamente la saggezza non dipende dall’aver trovato una soluzione ai grandi problemi dell’umanità. Qualsiasi uomo, anche modesto, può essere più aggio di un filosofo celebre o di un premio Nobel della scienza, purché meglio di loro sia in grado di rendersi conto dei propri limiti e dei limiti della propria vita, dei pericoli che lo minacciano, di accostarsi al presente con felicità ed al futuro con la sobrietà delle proprie aspettative, di essere equilibrato nelle proprie aspirazioni, di saper controllare i propri impulsi. Per divenire saggi occorre, ma potrebbe non essere ancora sufficiente, pensare, meditare, riflettere, valutare, operare per costruire in noi una inclinazione all’apprezzamento del vero e del giusto. Occorre saper gioire, assaporare il successo attenuandone l’ebbrezza, ma più ancora occorre saper soffrire, superare le umilianti conseguenze di un insuccesso soprattutto se subito in uno scontro con noi stessi. Occorre, insomma, avere vissuto intensamente ed essere disposti a vivere con altrettanta intensità.

Essere o avere

Interessante è il pensiero che Schopenhauer esprime nella Introduzione ai sui «Aforismi per la saggezza del vivere»: «Io considero qui il concetto di saggezza della vita in senso del tutto immanente, in quello cioè dell’arte di passare la vita in modo possibilmente piacevole e felice… Un’esistenza felice potrebbe definirsi quella che, dopo un esame freddo e maturo, dovrebbe essere decisamente preferibile al non essere». Egli vede nella saggezza uno «stato» da raggiungere per essere felici e, nell’esaminare i requisiti generali della condizione umana, fa risalire a tre le «determinazioni fondamentali » che fanno «differenza nella sorte dei mortali»:

  1. Ciò che si è, dunque la personalità nel suo significato più largo.
  2. Ciò che si ha, dunque la proprietà e il possesso in qualunque senso.
  3. Ciò che si rappresenta, dunque ciò che uno è nella rappresentazione degli altri, ovvero il modo in cui gli altri lo rappresentano.

Dopo alcune considerazioni su tali determinazioni, giunge alla constatazione che per la felicità della nostra vita, la cosa prima ed essenziale «è ciò che siamo, cioè la personalità, anche solo per il fatto che essa è costante ed efficiente in qualsiasi contingenza». Inoltre, mentre per la seconda e la terza possono influire in misura considerevole le circostanze della vita, il caso, il destino ed il gioco imprevedibile dei rapporti con gli altri, per la prima – ciò che si è – tutto quello che sta all’esterno dell’individuo ha una influenza alquanto marginale. Ne segue, conclude Schopenhauer, che «l’uomo può essere aiutato dal di fuori, assai meno di quanto non si creda».

I Massoni condividono questo punto di vista. Essi sono perfettamente convinti che la autentica ricchezza di ogni individuo è rappresentata non da ciò che ha, ma da ciò che egli è. Per questo motivo i Massoni usano simbolicamente gli attrezzi propri dell’arte muratoria e si impegnano in un’opera ardua da portare a compimento: la costruzione di se stessi. Il clima di fraternità nel quale operano rende la loro fatica più gradita. Tuttavia essa resta una fatica da sopportare personalmente: non v’è pietra che possa essere cementata con successo per realizzare il progetto di uomo, se prima non sia stata levigata direttamente dal soggetto.

È ora che Pinocchio diventi Uomo

Quanto accade nel mondo è in gran parte merito e demerito dell’uomo, della sua pacata saggezza oppure della sua folle fantasia. Oggi, mille volte più di ieri. Ne è consapevole o follemente inconsapevole? Una follia, se c’è, completamente diversa da quella elogiata da Erasmo. Merito e demerito: il secondo sembra voler sopravanzare di gran lunga il primo. È merito del suo voler essere persona, o colpa del suo volersi annullare confondendosi nella massa. Ma finché preferirà distruggere la sua personalità per consegnarla ai manipolatori dei gusti, dei desideri, delle passioni, finché continuerà a comportarsi come Pinocchio che, abbagliato dalle lusinghe di Lucignolo, suo amico improvvisato, abbandona la difficile via della saggezza per perdesi nelle effimere distrazioni del paese dei balocchi, non vi potranno essere molte speranze per il futuro dell’umanità: il potere dei pochi continuerà a decidere il destino di molti. In una simile prospettiva, tutto resterà come prima e se cambierà qualcosa, ciò avverrà sulla base di interessi che gli saranno del tutto estranei. Quando invece l’uomo sentirà il bisogno di essere se stesso, di ritrovarsi nelle sue azioni, di riconoscersi nella sua opera, quando si convincerà di poter essere padrone dei propri destini, pur che lo voglia – e lo farà davvero – da quel momento tutto potrà cambiare. Quando alla concretezza della realtà si potrà sommare la ipotetica ma costruttiva follia di Erasmo? È davvero un’utopia? Può darsi. Nondimeno non possiamo evitare di inseguirla. Perché di questo si può essere certi: cambiando l’uomo, cambierà anche il suo destino.