Kant

Ha senso parlare oggi di ragione?

R. O. (Revista massonica svizzera giugno/luglio 2003)

«Il nostro tempo è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità sua, e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella non simulata stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame.» (Kant: Critica della ragion pura, prefazione)

Mi ricordo Kant, dai miei studi superiori, come l’esempio raziocinante per eccellenza, rimasto nella mia testa insuperato, come colui che aveva spinto all’eccesso l’indagine logica circa il pensiero circa il pensiero umano con una profondità rimasta ineguagliata, confrontandosi sia con la natura, sia con le domande fondamentali: esiste un Dio? l’anima è immortale? qual è lo scopo ultimo? Insomma: «Il FILOSOFO» con la F maiuscola.

Mano a mano che progredivo nella preparazione di queste riflessioni, mi è venuto alla mente che forse sarebbe stato più interessante, o perlomeno utile per me, qualche spunto sulla validità attuale dell’indagine sulla ragione fatta due secoli fa. Ma, soprattutto, dieci anni passati – più o meno regolarmente – fra le mura della mia Loggia, mi avevano spinto alla curiosità di sapere se vi era qualche cosa di comune fra le elucubrazioni del Tedesco e quanto da me vissuto in Massoneria. Poi mi sono reso conto che parlare di Kant sarebbe stata impresa assai presuntuosa e non volevo correre il rischio di confrontarmi con le sarcastiche battute di qualche Fratello o, peggio ancora, proporre delle impressioni deformate e deformanti.

La filosofia della ragione

Eppure il cammino della curiosità è segnato per un certo tratto: cercare di vedere in qual modo duecento anni orsono sia stato possibile dare alla metafisica – la filosofia della ragione – il cammino sicuro di una scienza. Tale era infatti il desiderio dichiarato di Kant. L’osservatore moderno ne ha ricavato un parallelismo evidente: quello che Newton aveva fatto per la fisica, con l’aiuto della matematica, Kant aveva voluto fare per la metafisica, cercando per passi continui e sicuri di verificare la possibilità di creare una mappa della ragione umana priva di relazione con l’esperienza empirica. Tuttavia per discutere di ragione non si può prescindere dall’esperienza empirica: ogni conoscenza umana inizia infatti dall’esperienza. Questa ha però un difetto fondamentale: essa è singolare per ognuno e dipende dalla sensibilità con la quale si percepiscono i fenomeni e dunque le manca la validità universale. Quest’ultima può essere data solo tramite l’applicazione dell’intelletto. Da questa fondamentale premessa Kant costruisce tutto il sistema del suo pensiero trascendentale, ovvero la possibilità di analisi secondo principi metodologici e generali che fanno completa astrazione dell’esperienza empirica. Questa operazione di “mappatura” dell’intelletto e delle sue facoltà di concepire a priori, con categorie di pensiero puntuali, costituisce uno dei momenti culminanti dell’Illuminismo e parte naturalmente da un concetto fondamentale, ancorché mai esplicitato, ovvero dalla fiducia illimitata dell’Uomo nella sua facoltà di pensare e ragionare; si coglie qui uno dei momenti migliori di questo periodo storico essenziale per il seguito, caratterizzato dalla volontà di chiarire la mente degli uomini, per liberarla dall’ignoranza e dell’oscurantismo per il tramite della conoscenza e della scienza. Ed a quell’epoca non vi è alcuna remora nell’affrontare di petto questioni delicatissime con la mera arma del ragionamento: la metafisica si deve occupare – è il dichiarato programma, da far tremare le vene ed i polsi – di Dio, dell’immortalità dell’anima e della libertà. Ma ben prima di arrivare a tentare di dare delle risposte è necessario che la mente umana faccia chiarezza sulla sua propria natura e sulla ragione che la governa; Kant ha impegnato forze cerebrali incredibili nella sistematizzazione del pensiero umano, ma lo fa tenendo sempre presente l’obiettivo della sua ricerca, ovvero la risposta alle domande fondamentali.

L’attualità del pensiero kantiano

Sarebbe troppo lungo e probabilmente anche un poco noioso se dovessimo seguire tutti i fili del complesso pensiero di un autore che ha segnato la storia della filosofia, per l’ampiezza delle sue conoscenze, la profondità e lo spessore del suo pensiero e per la plasticità con la quale lo ha presentato. Mi interessava di più – e torno alle considerazioni iniziali – vedere quale fosse l’attualità delle sue riflessioni sulla ragione, non tanto nella parte puramente naturale della sua filosofia delle idee, ovvero quella scevra da aspetti di carattere etico-normativo (discorsi sulla natura, sull’empiricità dell’esperienza, sulle logiche, sulle antinomie, sulla logica trascendentale, ovvero il funzionamento del pensiero per concetti non di origine estetica, né empirica, ecc.), quanto piuttosto nella pratica di applicazione concreta per l’azione quotidiana. Diamo dunque per acquisite ed accettate – come infatti sono poi state nel seguito storico – quelle parti del pensiero kantiano che si muovono nel solco della metafisica, ovvero non tormentate dalla reale situazione e dalle pulsioni umane, per vedere invece se è ancora attuale l’invocazione alla ragione come regolatrice di ogni comportamento umano e se tale funzione regolatrice può essere di applicazione universale. «Lasciate che l’avversario adoperi soltanto la ragione, e combattetelo solo con le armi della ragione» (Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale del metodo); questa invocazione di Kant è inserita in un discorso assai articolato e complesso sull’uso della ragione e sulla necessità di abbandonare il mondo del sensibile e della polemica per il ragionamento.

Guardando il mondo attuale, vicino e lontano, sembra quasi di udire una flebile voce nel deserto; oggi prevale esclusivamente il richiamo al modo sensibile, a quello degli stimoli di prevaricazione e di sopraffazione; la voce della ragione sembra soffocata dagli ismi di ogni genere, specie dagli integralismi di ogni tipo. Eppure la ragione resta ancora il fondamento della convivenza umana; Kant stesso non aveva dimenticato – ci mancherebbe – di ricordare che solamente attraverso la ragione si possono regolare i conflitti in modo che le parti attraverso un processo ragionato, giungano a quella purificazione e decantazione delle rispettive posizioni che si esplicita con la sentenza tale da fare intendere anche al perdente che non è vittima del sopruso o della forza, bensì partecipe attivamente di un processo di valutazione e ponderazione delle ragioni di ognuno, che sono appunto il frutto di elaborazioni teoriche. È solo dunque attraverso la ragione che l’uomo riesce ad uscire dal suo stato primitivo dell’homo homini lupus. Si coglie uno degli aspetti fondamentali della necessità di sezionare e di studiare il pensiero; attraverso l’elaborazione della critica e della ragione si può giungere a costruire un mondo pensante il quale proprio per la forza della ragione stessa e della sua logicità non può che costituire l’unico mezzo per risolvere i conflitti. È questo un aspetto poco evidenziato del pensiero di Kant, se non dai primi studiosi di filosofia e sociologia del diritto, ma che costituisce uno dei pilastri della convivenza e del quale oggi, vicini e lontani, andiamo vieppiù discostandoci; questo sentiero dell’accordo per dirimere i conflitti entro binari ordinati dettati dalla ragione viene dimenticato per far posto alle pulsioni umane, dalle più nobili alle più orrende. Tuttavia qui si coglie anche un punto debole della teoria della ragione, messo in evidenza più tardi, ovvero quel punto di vista per il quale l’Illuminismo ha eccessivamente privilegiato la parte pensante dell’uomo, dimenticando tutto quanto attiene alla sfera affettiva, artistica, culturale, impulsiva e relazionale. Ma era sicuramente compito dell’Illuminismo di uscire dal sentiero precedente, ove invece principalmente la parte irriflessiva dell’uomo aveva retto i destini, privilegiando l’abuso e l’eccesso di potere incontrollato.

Ragione ed Essere Supremo

Ma torniamo alle domande fondamentali. Se qualcosa esiste si deve ammettere che esiste necessariamente; tuttavia poiché in natura vige il principio di causa-effetto ogni oggetto è condizionato dall’esistenza di un altro oggetto, fino ad una prima causa che non sia contingente, ovvero dipendente da un’altra causa; questo è l’argomento della ragione per giungere ad un Essere originario. Con questa costruzione non si dimostra l’esistenza di un Dio ma si fornisce il ragionamento logico per arrivare all’Essere Supremo: si tratta di un concetto puro della ragione, poiché fa astrazione dell’esperienza empirica. La prova dell’esistenza di un Dio non può essere data ammettendo la possibilità, tramite il ragionamento, di un Essere supremo: ammettere la possibilità per via ragionativa non vuole dire ammetterne l’esistenza. Questi pensieri hanno dato luogo nel seguito a numerosi tentativi di confutazione da diverse parti; seguirne il filo ci porterebbe molto lontano; a me preme qui sottolineare come in realtà possiamo trovare in questi pensieri il fondamento ragionato e ragionevole di ogni opposizione a posizioni ateistiche che neghino l’Essere Supremo; d’altro canto è ben presente in Kant l’indicazione che l’Essere Supremo è in sostanza un ideale verso cui tutti noi tendiamo, in quanto si tratta di un principio regolativo della ragione umana, assieme ad altri come l’uomo, posto al centro di ogni e qualsiasi attività del pensiero e dell’azione, e la natura. Certo che su queste affermazioni si sono poi aperte le cataratte delle speculazioni circa l’appartenenza di Kant alla Massoneria; se è innegabile – gli scritti determinanti dell’autore sono posteriori ai Landmarks massonici – che molto probabilmente un influsso perlomeno generico delle idee del nostro Ordine, allora molto forti ed importanti in Prussia, debba aver lasciato il segno è altrettanto vero che tale influsso non va sopravvalutato a fronte dello scopo dichiarato di Kant di fare della filosofia una scienza esatta, per cui in questo obiettivo altamente positivistico non poteva che rientrare anche il ragionare sull’Essere Supremo.

Lo scopo ultimo

L’immortalità dell’anima non sembra invece una questione che si possa spiegare: quando anche potessimo conoscere la natura spirituale dell’anima (e dunque la sua immortalità), non si potrebbe ricavarne grandi conseguenze perché da essa non si potrebbero spiegare i fenomeni della vita perché si tratta di un concetto di natura incorporea che non è di per sé atto ad estendere le nostre conoscenze. Le domande finali relative allo scopo ultimo vengono suddivise in diverse sottodomande: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Alla prima domanda la risposta è meramente speculativa, ovvero conoscere: posso sapere tutto quello che la mia ragione è in grado di affrontare in termini di analisi e di approfondimento della logica del pensiero e delle scelte dello stesso. La seconda domanda richiede una risposta di tipo morale e la morale è la dottrina – tesi assai singolare – di come dobbiamo diventare degni di felicità. La terza domanda ritiene una risposta conseguente: fa ciò per cui diventi degno di essere felice.

La legge morale

Si inserisce qui un discorso normativo che esce dallo schema precedente della pura analisi del trascendentale inteso come il modo di conoscenza degli oggetti, ovvero della metodologia e dell’analisi della ragione; premessa del discorso è la libertà, che però diventa libero arbitrio se non è incanalata in un uso regolativo, che può essere dato solamente dalla ragione. La legge morale è un fatto della ragione e per questo motivo pretende di avere valore universale, di costituire dunque il fondamento dell’etica; siccome la legge morale è universale, essa fa astrazione dall’esperienza da cui non può essere dedotta; essa è antecedente all’esperienza e quindi esiste a priori e dunque non può che essere il frutto della ragione (abbiamo detto all’inizio che la ragione pura vuole applicarsi a tutto quanto è a priori rispetto all’esperienza) e dunque ad essa si conviene il principio di validità universale perché prescinde dall’esperienza; la legge morale non è un’esigenza dell’uomo per natura; essa è il frutto di una necessità oggettiva e pertanto valida per tutti; tale necessità oggettiva costituisce un imperativo; in particolare l’azione è comandata dall’imperativo per cui occorre agire in modo che l’azione possa diventare legge universale, che proprio per la sua natura universale assurge al ruolo di legge oggettiva. In sostanza la moralità viene definita in modo formale non con ciò che si vuole, ma con il principio che muove l’azione.

Convivenza civile Torno allora al quesito iniziale: questi temi sono ancora attuali? Io credo che siano attualissimi. Il richiamo alla ragione come mezzo per risolvere i conflitti ed alla legge come espressione della morale e del principio categorico che ne deriva costituiscono il fondamento della convivenza civile; il problema è che troppo spesso ce ne dimentichiamo e pur di avere “ragione” non esitiamo ad abbandonare il sentiero della razionalità per passare a quello del potere, piccolo o grande che esso sia; così facendo non ci accorgiamo che restringiamo gli spazi di libertà altrui. Credo che la difficoltà a far prevalere la ragione sia insita proprio nella pratica quotidiana poiché essa richiede esercizio costante, distante dalle pulsioni del momento; questo distacco può essere difficile perché presuppone quotidianamente la rimessa in gioco di noi stessi ed il continuo riesame del nostro comportamento, se rispondente a canoni di interesse generale o egoistico. Certo non si può pretendere – e qui sta la critica al formalismo delle idee che ho ricordato in precedenza – che l’uomo riesca ad estraniarsi completamente da quella parte dell’Io che non è razionale, ma lo sforzo merita di essere fatto.

Credo infine personalmente che il richiamo ai fondamenti morali dell’azione umana trovi un terreno particolarmente fertile proprio in chi, come noi Massoni, ha liberamente scelto di aderire ad un Ordine per il quale il rispetto di un canone morale che pone alla base la libertà e l’azione universale è conditio sine qua non di un esercizio personale continuo.