Giovanni Pascoli

150 anni fa nasceva il grande poeta, scrittore e Massone italiano

Ha ragione da vendere Elémire Zolla, quando afferma: «La nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea e segreta, perché, a differenza degli inglesi e dei tedeschi, ha dovuto sottrarsi alla censura dell’ala meno illuminata ed elitaria della cultura cattolica.»

M. N., membro del GOI (Revista massonica svizzera ottobre 2005)

Vi è dunque un’aurea catena ininterrotta della trasmissione della Tradizione, una lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, al centro della nostra letteratura. Uno degli anelli di questa catena, senza dubbio, è stato Giovanni Pascoli, più noto al grosso pubblico per la sua poesia che per la sua conservazione di questa sapienza antica che riformulò con ampia erudizione in densi testi che corrono il serio rischio di svanire alla memoria.

Secondo lo storico Aldo Mola, Giovannino fu iniziato il 23 settembre 1882 alla Loggia «Rizzoli» di Bologna, all’età di ventisette anni, poco prima di partire per raggiungere la sua prima cattedra d’insegnamento liceale a Matera. Era lo stesso anno in cui s’era laureato, con una tesi di letteratura greca sul poeta Alceo. Lo stesso Mola lamenta come la sua appartenenza alla Massoneria sia sistematicamente ignorata da biografi e critici e come, per contro, la sua adesione all’istituzione massonica sia fondamentale per comprendere la sua poetica, ed io aggiungo, come vedremo, anche per cogliere la sua fondamentale interpretazione dantesca.

L’ostilità della Chiesa

Moriva a Bologna il 6 aprile 1912, Giovanni Pascoli, legato com’è noto alla Lucchesia. Si era allora in un duro periodo di confronto elettorale. La notizia che la sua salma sarebbe stata tumulata a Barga presso Castelvecchio, transitando per Lucca, mobilitò le associazioni della «Dante Alighieri» e «Il Libero Pensiero», – sodalizi entrambi fondati e guidati da Massoni – come i partiti dell’allora sinistra, tutti intenzionati a renderle onore.Anche la Massoneria lucchese manifestava formalmente l’intenzione di salutare il passaggio all’«Oriente Eterno» di Pascoli. Apparve il 9 aprile un manifesto che riportava la firma del dottor Argenti, commissario prefettizio del Comune di Lucca, che invitava la cittadinanza a rispettare la volontà dei familiari che avevano richiesto l’astensione da ogni manifestazione esteriore. In gran parte della popolazione tali disposizioni provocarono stupore, poi indignazione, allorché si seppe che il commissario prefettizio, da giorni a Bologna per seguire le vicende del funerale, non aveva mai autorizzato tale manifesto. Si apprese, inoltre, che Mariù, la sorella del Pascoli, era rimasta amareggiata poiché nessuno della famiglia aveva mai avanzato una tale richiesta. Ad onta del tentativo di rendere silente il passaggio da Lucca della salma di Pascoli, il 9 aprile alcune migliaia di persone accorsero lo stesso alla stazione, dove i cancelli erano stati chiusi e gli accessi presidiati dalle forze dell’ordine. Secondo un rapporto della Prefettura, i servizi di sicurezza «furono travolti dall’orda della moltitudine colà accorsa» e sarebbe stato impossibile impedire, senza spargimento di sangue, l’invasione della stazione. Infuriava il vento e l’acqua, ogni casa era vestita a lutto – riportano le cronache – ma il corteo, per volontà della sorella Mariù, proseguì senza soste al lume di fiaccole e torce a vento, fino al cimitero di Barga, dove il feretro giungeva a notte inoltrata. La stampa nazionale dava ampio risalto alla scomparsa del poeta e i fogli democratici accusavano di servilismo le autorità lucchesi, imputando al prefetto di aver emanato l’ordine di boicottaggio per favorire il partito clericale nella campagna elettorale in corso. Nonostante ciò, si scriveva, l’immensa folla riuscì a compiere una dimostrazione di affetto che, senza la partecipazione delle autorità e con tutte le ingiustificate ostilità frapposte, era riuscita ancor più solenne. Il giornale cattolico «L’Avvenire d’Italia», invece, parlava di sceneggiata e di dimostrazione settaria voluta a Lucca dalla Loggia «Burlamacchi» e dall’Associazione del «Libero Pensiero». Poi bollava con parole di fuoco «l’opera triste compiuta con infinite arti dalle sette massoniche, per ottenebrare (…) la purissima ed incantevole idealità cristiana» del poeta. Anche alcuni giornali dell’epoca avvaloravano l’appartenenza libero-muratoria dell’autore di Myricae, scrivendo esplicitamente nei loro necrologi, di «Pascoli Massone». Va detto a onor del vero che la sorella Mariù sempre respinse con fastidio le voci dell’iniziazione muratoria del fratello, da lei giudicate insinuazioni malvagie, anche temendo che portassero a ritenere che la cattedra universitaria del Pascoli e la sua fama letteraria non fossero dovute a meriti propri. Risiede, in larga parte, in questa volontà della sorella Mariù, esecutrice testamentaria dell’opera letteraria di Pascoli, uno dei motivi per cui quasi mai brilla, nella critica letteraria dell’opera di Pascoli, la luce sulla sua appartenenza massonica e l’influenza di quella cultura iniziatico-esoterica, comune del resto anche a Carducci, D’Annunzio e diversi altri letterati dell’Ottocento.

Sostegno laico-liberale

Oltre all’assenza di questa indelebile impronta della sola istituzione che, secondo Mircea Eliade, ha conservato nel mondo moderno occidentale caratteristiche sacro-iniziatiche e che non può non aver conferito una fonte di sapienza cui il poeta di San Mauro si abbeverò, la critica letteraria su Pascoli si è ampiamente lasciata influenzare da pregiudizi di natura politico- filosofico-religiosa piuttosto che lasciarsi guidare dal giudizio estetico e ha guardato più al «contenuto» che alla resa poetica dell’ispirazione. L’opera del Pascoli è stata così soggetta a molte incomprensioni. Fra i critici di area liberale, quelli di «sinistra» gli furono favorevoli, apprezzando il suo socialismo umanitario ed il suo scetticismo teologico, mentre quelli di «destra» gli furono contrari per lo stesso motivo, perché non apprezzarono quel suo persistere «nel solco di un socialismo sia pure pacifista ed idillico»; fra i critici di area cattolica, generalmente ostili al Pascoli, non mancarono dei convinti sostenitori della sua arte, i quali riconobbero al poeta romagnolo una certa «ansia tutta cristiana e francescana del suo filantropismo». Per contro, i critici di area marxista si vendicarono della defezione del Pascoli dal socialismo militante (avvenuta dopo l’esperien za del carcere), giudicando l’uomo un «conservatore egoista» e il poeta uno che attinge la propria ispirazione, «refrattaria ai cimenti della nuova idea». Non intendiamo qui addentrarci in un’analisi politica di un’epoca pur ormai lontana, ma di un’epoca post-risorgimentale in cui la Massoneria aveva comunque un suo ruolo politico-sociale. Si vuole semplicemente sottolineare il fatto che, dopo la sua prima adesione negli anni giovanili a quell’Internazionale anarchico-socialistica che fu una frangia della Massoneria, rappresentata da Bakunin e Andrea Costa, fino alla sua partecipazione a manifestazioni antigovernative e al tentativo insurrezionale nel 1879, che condusse al suo arresto, e quindi all’esperienza traumatica del carcere per alcuni mesi e alla successiva piena assoluzione; tutto ciò determinò il distacco di Pascoli da una politica militante di parte. Da allora, non si può non rilevare che, dalla sua successiva adesione alla Massoneria, tre anni dopo, fino a tutta la sua vita, il Pascoli etico e diffusore di un messaggio sociale, ma anche il poeta, cioè l’uomo intero, restò sempre fedele nel propugnare il principio di fratellanza, che non è solo il centro del noto Trinomio massonico (innovazione del 1848), ma anche il caposaldo dei Landmarks massonici. Pascoli, come, allo stesso modo, il massone De Amicis, fu sempre fedele a un ideale di socialismo umanitario, che ripudiava da un lato il dogma della «gelida» dottrina marxista della lotta di classe e da un lato accoglieva il più puro principio cristiano, quello delle origini, della mansuetudine evangelica e dell’esoterismo francescano, quello, in altre parole, della fraternità fra gli uomini, quel costante appello alla bontà, all’amore, alla solidarietà e alla pace. Va anche detto, per inciso, che le dispute seguite ai funerali di Pascoli erano, comunque, le ultime schermaglie di una battaglia per laicizzare la società italiana che si stava spegnendo, e che avrebbe lasciato irrisolta una delle questioni fondamentali della storia dell’Italia liberale.

Poeta, filosofo, Massone

Con la morte di Pascoli si chiudeva un ciclo, e le aspettative di modernizzazione del mondo laico erano frustrate dall’esito delle elezioni politiche del mese di ottobre, dove in quasi tutti i collegi avevano la meglio i candidati conservatori. Poi il Fascismo, con la chiusura delle Logge massoniche, il dopoguerra segnato dalla guerra fredda e dalla paura del «pericolo rosso», che portava al ricovero sotto lo scudo crociato, toglievano l’adeguato supporto politico alla cultura laica e al pensiero massonico, solo in parte rimaterializzatisi con le conquiste dei diritti civili degli anni Settanta.

Sia l’Arte muratoria che quella del linguaggio si reggono sull’energia della parola elaborata ed evocatrice. Fu proprio un grande letterato Massone, Goethe, a proporre nel suo «Faust» la cosciente riconciliazione tra Parola (matrice delle lettere) ed Azione (ovvero lavoro), attraverso la mediazione di Pensiero ed Energia. Per queste ragioni non può certo stupire il fatto che, laddove parola e lavoro assumono un corpo unico, ovvero l’arte letteraria, la presenza dei Massoni sia sempre stata e continui ad essere nutrita. E questo è, e non può essere altrimenti, il caso di Pascoli. Sarò estremamente sintetico nell’indicare quest’identità tra il Pascoli poeta e il Pascoli Massone ed esoterista, fatta l’identità in Pascoli come diffusore del pensiero massonico, poeta civile, vate dei destini dell’Italia e celebratore della sua gloria che gareggia col suo maestro, l’altro Massone Carducci, e con l’amico-nemico D’Annunzio, con le Odi e inni, i Poemi del Risorgimento e le Canzoni di Re Enzio.

Un primo spunto di riflessione è certamente quell’ideale di Eden, di paradiso terrestre perduto, di sogno della palingenesi pitagorica, rappresentato dalla vita nel mondo della campagna, quell’idillio georgico di Virgilio – altra grande figura esoterica – che rappresenta da un lato quella ricerca ciclica dell’Età dell’Oro e dall’altro una nitida anticipazione delle migliori istanze ecologiste e no global verso una vita più a misura d’uomo di taluni orrori e aspetti detestabili della vita cittadina e della globalizzazione economica con i suoi amari squilibri. Ovvero la ricerca di quell’armonia sociale e cosmica che si potrebbe raggiungere se non vivessimo del superfluo e sotto il dominio del guénoniano «regno della quantità». Nella vita legata alla terra, nel ciclico succedersi delle stagioni, Pascoli vede il deposito di quei valori tradizionali autentici come solidarietà, bontà, purezza morale, semplicità, saggezza, contrapposti alla realtà contemporanea. Anche i temi astrali, di quelle stelle che decorano il soffitto del Tempio massonico, spesso si allineano nei suoi componimenti. Al contrario, annotava Pascoli in pagine di lucida profezia in «Una sagra», discorso del 1900: «I più forti ingoiano i più deboli… verrà tempo in cui si potrà dinotare per nome l’unico possessore di tutto il mondo: un tiranno al cui servizio sia un genere umano di schiavi… Il genere umano precipita verso l’abisso della monarchia unica e del possessore unico. Si presenta ai nostri occhi l’orribile galera terracquea in cui gli uomini lavoreranno meccanicamente… ubbidendo al cenno invisibile del solo despota che impera nell’unica Babilonia.»

Ancora il costante rapporto con la morte, l’ignoto e il mistero, l’inconoscibile verso cui l’anima si protende ansiosa, tesa com’è a captare i messaggi enigmatici che provengono dal mondo, non traducibili in alcun sistema codificato dalla scienza, ma che necessita anche degli strumenti non razionali dell’intuizione.

Occorre rilevare che la stessa prova del dolore e della sofferenza cui fu sottoposto Pascoli nella prima gioventù, per l’omicidio del padre, deve aver assunto, al termine del percorso iniziatico di Pascoli, forti connotazioni hiramitiche, ovvero quella «nuova disposizione interiore». E, in ogni caso, senza accennare oltre, non si potrà non segnalare quel dato comune di come il dolore e la morte siano una dimensione trascendente di purificazione ed elevazione, modello esemplare di un ispirato messaggio etico e metafisico destinato all’umanità intera.

Cosmico tra antico e moderno

Infine accenneremo al suo amore, per molti aspetti, del passato classico, di quel mondo greco-latino che fu una costante della sua poetica e delle sue traduzioni, veduto nella sua ansia di totalità, come conoscenza delle ultime cose, dell’ignoto e del mistero, di quegli arcani indicibili, «forze incognite incessanti».

E, infatti, nondimeno, si dovrà, nella sua poesia, richiamare l’attenzione, additandola a chi solo sappia coglierne appieno il significato e il senso, verso «quella perenne auscultazione del mistero che è al di là delle cose più usuali » che, anche nelle «piccole cose», negli oggetti più comuni, sa rendere la presenza di un’altra dimensione, carica di significati simbolici. È certamente in ciò che sta la grandezza del poeta «fanciullino», nella sua capacità di scoprire aspetti inediti del reale. E soprattutto quel suo modo nuovo di vederlo e rappresentarlo. E ciò anche dal punto di vista stilistico. Così come tra gli oggetti del mondo reale non v’è superiorità, ma anche il più umile ha legittimità di significato e di significante, anche tra le parole avviene lo stesso processo di libertà. Non c’è lotta di classe nell’ambito semantico. Accanto a parole dotte, auliche, preziose, antiquarie, trovano posto, come eguali, termini gergali attinti dalla civiltà contadina, assieme ai termini del parlare comune si affratellano parole provenienti da lingue straniere, accanto a formule tratte dall’antica poesia classica siedono precisi termini della moderna botanica e ornitologia. Per non parlare poi delle onomatopee, del fonosimbolismo, del linguaggio analogico, delle metafore e delle sinestesie – per cui le forme si trasmutano continuamente le une nelle altre – tutti elementi che sono cifre caratteristiche della poetica pascoliana. E che, non a torto, lo fanno, per la critica contemporanea, appartenere più che alla corrente cosiddetta «decadentista », a quella – insisto, a buon diritto – «simbolista». Infatti come il simbolo – secondo la corretta definizione di Plutarco – non dice, ma allude, suggerisce, così è, sempre, la poesia di Pascoli, anche la più minuta, al di là dei suoi vividi quadretti impressionistici, dimodoché, dietro la presunta compattezza della realtà, si dischiude sempre una trama di analogie segrete, di significati simbolici misteriosi. Paradossalmente, la sua stessa poetica del «fanciullino», malintesa dalla stragrande maggioranza, da tutti quanti hanno costantemente rifiutato e respinto come si dirà, uno dei vertici fondamentali dell’opera pascoliana, ne ha determinato – pur restando sempre tra i grandi della poesia italiana – mode e fortune. Non meno di tre generazioni della scuola dell’obbligo, dagli anni Cinquanta ai Settanta – anche chi scrive vi appartiene – sono state nutrite di poesie di Pascoli, vedendovi in esse soltanto l’aspetto retorico-sentimentale, viziato dal giudizio di Croce – mi raccomando di fare attenzione a Croce che fu sempre un esplicito antimassone! – di un Pascoli che «si aggira in un piccolo mondo perché non conosce e non è in grado di dominarne uno più vasto». Al contrario dei giudizi estetici di Croce di cui si farà sempre bene a diffidare, accoglieremo invece con favore la definizione di Pascoli «poeta cosmico» del grande Luciano Anceschi, che tradurremmo con «il poeta dell’architettura dell’universo». Altrettanto, con orrore, andrà disdegnata la recente analisi critica, condotta con i logori strumenti della psicanalisi freudiana, circa la sessualità turbata del poeta, arrestata all’età del «fanciullino», con il conseguente recupero di talune sue poesie, in cui gli aspetti funerei dovrebbero apparire, secondo questi critici, come morbosi. Che sarebbe un po’ come dire, per analogia, che l’archetipo del «puer aeternus» o la pratica con il concetto di morte-rinascita fossero indice di una sessualità turbata. Se proprio si volessero adottare gli strumenti della psicanalisi per la critica alla poesia pascoliana, meglio si adatterebbero quelli di Jung e dei post-junghiani, che meglio comprendono archetipi, miti, simboli ed esoterismo platonico, per capire la bellezza del senso tragico della vita che promana dalla poesia di Pascoli e di come Pascoli, così potrebbe dire James Hillman, «faceva anima».

Velata gnosi esoterica

S’accennava alla poetica del «fanciullino». In questo famoso saggio del 1897 il poeta romagnolo attribuisce la scoperta del «fanciullino» al tebano Cebes, uno dei protagonisti del dialogo platonico Fedone. È il personaggio che, di fronte alla socratica dimostrazione dell’immortalità dell’anima, della sua preesistenza e perennità, confessa come in noi tutti, al modo di un fanciullo, vi sia sempre lo sgomento e la paura della morte. Per renderci conto di quanto Pascoli fosse acuto e profondo, in altri termini esoterico, per scoprire come la scuola sia spesso una stanza vuota e la stanza col lettino di Freud sia una stanza di comprensioni parziali e perciò incomprensioni, per avere, al contrario, una visione sinottica, completa di Pascoli, occorre, davvero, una grande opera di risarcimento culturale verso il poeta di San Mauro.

Si racconta che Pascoli nel suo studio avesse tre scrivanie, una per le sue poesie, la seconda per le traduzioni, una per i suoi saggi di critica dantesca. Per un occhio addestrato sarà facile scorgervi l’analogia con i tre seggi del Tempio massonico e con le tre luci, la forza – la poesia, la bellezza – le sue traduzioni, la sapienza – il lavoro su Dante. È proprio su quest’ultima, ma prima, scrivania che scrisse la trilogia «Minerva oscura». Prolegomeni: la costruzione morale del poema di Dante (1898), «Sotto il velame». Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro (1900), «La mirabile visione». Abbozzo di una storia della Divina Commedia (1902) e avrebbe anche vagheggiato scrivere un non mai compiuto «La poesia del mistero dantesco». In questa sua continua attività di dantista si aspettava fama e invece gli procurò solo delusioni. Quando pubblicò i tre geniali, acuti, saggi sulla «Commedia» non ci fu rivista letteraria che ne facesse menzione, e non glieli recensì neppure «Il Resto del Carlino» di cui era collaboratore. Tuttora, a questo aspetto, quello di più alto grado come abbiamo veduto, si continua a perpetrare un «no, grazie». I libri citati – cui va aggiunta l’edizione postuma del 1915 delle «Conferenze e studi danteschi» – restano pressoché introvabili e volutamente ignorati dai dantisti in cattedra.

Seppur talvolta distratti custodi della gnosi esoterica, il buon seme della sua pianta non può fare a meno di ricrescere. Buona novella è, dunque, l’annuncio di un piccolo, colto e raffinato editore romagnolo,Walter Raffaelli, che inaugurerà una collana, intitolata TOIS SEBASTIKOIS, ai venerabili – la denominazione che spettava al più alto grado dei pitagorici – i cui primi titoli saranno proprio la ristampa, nel corso del 2002, in occasione del novantesimo della morte del poeta di San Mauro, dei quattro introvabili, e spregiati, saggi pascoliani su Dante. Davvero, come dice una massima esoterica, «la pietra più disprezzata è la pietra di fondamento». La pietra più sdegnata da tutti deve essere raccolta e classificata, con le innumerevoli altre pietre, per sviluppare l’edificio. E spesso un genere di lavoro di scavo è necessario per portare alla luce di nuovo le pietre profondamente seppellite dell’edificio immortale.

Dantismo pascoliano

La proposta (o riproposta) delle opere principali degli esponenti più interessanti del cosiddetto pensiero tradizionale intorno alla dottrina di Dante – a cominciare dall’italiano Pascoli, ma si dovrà pensare anche a Rossetti, mentre Valli ha goduto di migliori fortune editoriali – di libri eterodossi, misconosciuti ed emarginati per decenni, e nel caso di Pascoli si è raggiunto il giro di boa del secolo – ci sembra quanto mai utile e necessaria in un panorama editoriale, in materia di esoterismo, sempre più ammorbato dai fumi dell’immenso ed infinitamente riscaldato minestrone della new age e dove le opere degli esoteristi stranieri – le fortune del citato Guénon fanno da esempio – vi appaiono il piatto forte anche per quell’insana e vieta passione, solo italiana, per tutto ciò che è straniero. E tale da poter consentire un risarcimento verso il completo pensiero pascoliano e, magari, una ripresa degli italianissimi studi tradizionali su Dante e di studi esoterici su Pascoli – la cui unica eccezione in questi ultimi decenni è rappresentata soltanto dal libro di Carlo Gentile.Tale operativo lavoro potrà permettere, infine, una riscoperta di quella sapienza italica, rigorosamente greco-latina, che, da Pitagora ad Arturo Reghini, per fare un solo nome tra i più recenti, mai si estinse.

In tale benemerente opera di ristampa delle neglette opere di Giovanni Pascoli, anche noi troveremo un «poeta che mi guida»: non ci sono migliori parole di quelle di Dante circa Virgilio per descrivere Pascoli come critico dantesco. Inseguire Dante, intessendo sulle orme della «Commedia», il proprio affannoso viaggio terrestre: questa è la fascinosa epopea critica del dantismo pascoliano, che si potrà dispiegare nuovamente dinanzi agli occhi, in un viaggio misterioso nell’oltretomba dantesco che il poeta di San Mauro tramutò nella sua personale ricerca.

Sono tutte opere, quelle citate su Dante, della lignée indicata, che ci fanno intravedere l’antichissima origine della Tradizione, ben più remota dell’inglese istituzione della moderna Massoneria. Come deve infine dichiarare proprio il francese Guénon, nel suo saggio «L’esoterismo di Dante», è lecito «pensare che da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a Dante la ‘catena della tradizione’ non fu mai interrotta nella terra d’Italia».

Ma, al di là del concetto, a lode di Pascoli dantista, si scoprirà come il suo maggiore impegno, per oltre un secolo tradito e seppellito da ignoranza, fanatismo e ambizione, consentirà illuminazioni vivissime, sottraendo la Divina Commedia dalle tenebre della storia e dell’allegoria per innalzarla ai vertici del perenne simbolismo della poesia.

Dice Pascoli in Minerva oscura: «Il viaggio pare uno di quelli che possiamo ricordare d’aver fatti da fanciulli…» (Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio)

L’iniziato vi distinguerà un’eco del viaggio iniziatico tra gli elementi. Qui il fanciullo è il puer, il non iniziato che si accinge al suo percorso. Pascoli non diversamente da Dante. Non diversamente Apuleio, quando narra l’epifania di Iside che si manifesta a Lucio. Non diversamente Plutarco, quando ci descrive l’iniziazione. Non diversamente Pinocchio. Non diversamente, infine, il «fanciullino» di Pascoli, e Dante, guidato da Virgilio, in una circolarità perfetta che ouroboricamente si ricongiunge.