Dal mito al Logos

Da qualche decina di anni ormai stiamo assistendo ad un passaggio da una civiltà della scrittura ad una civiltà dell’immagine. Gli indizi di un tale cambiamento di paradigma sono abbastanza evidenti: giornali sempre più ridotti, libri di testo nei quali le immagini e gli schemi sostituiscono la scrittura, giovani che leggono sempre meno…Ciò che risulta invece poco evidente sono le possibili conseguenze di un tale cambiamento. In questa Tavola cercheremo di metterle in evidenza ripercorrendo alcuni momenti storici che hanno visto l’affermarsi del passaggio dall’oralità alla scrittura e che ora pare minacciato da diversi fattori.

Il filologo inglese del Novecento Eric Alfred Havelock, nella sua opera Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, sottolinea come la cultura greca arcaica era basata prevalentemente sull’oralità ed era notevolmente condizionata dai poemi di Omero e di Esiodo e dai poeti in generale i quali venivano considerati come i modelli del sapere.

Dall’oralità poetica a quella dialettica

Queste opere fungevano da vera e propria enciclopedia del sapere dell’epoca. Il lessico, la morfologia e la sintassi di tale cultura erano inscindibilmente collegati con il mito e le relative immagini che esso veicolava. Questi elementi trovavano poi una naturale espressione nella forma della narrazione dove i protagonisti si identificavano con personaggi dei fatti e degli eventi accaduti soprattutto in passato. La trasmissione e l’apprendimento dei testi si fondava sulla memorizzazione dei versi e sulla loro continua ripetizione. L’insegnamento nelle scuole avveniva tramite recitazioni e canti poetici. Le rappresentazioni delle commedie e delle tragedie non avevano solo una funzione ludica ma anche e soprattutto di formazione e informazione. A tale scopo si insisteva sulla necessità di coinvolgere emotivamente lo spettatore portandolo a partecipare e anche ad identificarsi empaticamente con i protagonisti. In questo modo l’assimilazione mnemonica dei contenuti attraverso l’imitazione risultava più efficace. In seguito, con l’emergere del pensiero filosofico, una nuova forma di oralità comincia a prendere il sopravvento. Mentre quella della Grecia arcaica, come abbiamo visto, si fondava sul mito, sulle immagini particolari, la nuova oralità ha una natura concettuale, dialettica ed astratta. Una tale metamorfosi dell’oralità secondo alcuni autorevoli studiosi come Giovanni Reale sarebbe la causa che ha reso necessaria la diffusione della scrittura. Con Socrate in particolare ci si rende conto che non è possibile ancorare i suoi insegnamenti fondati sul dialogo e sulla ricerca delle essenze e dell’universalità dei fenomeni ad immagini singolari, a miti fantasmagorici. Per esempio, alla domanda che cos’è la bellezza non si riusciva più a rispondere con le immagini di una bella ragazza. Dal momento che si poteva associare l’attributo della bellezza anche ad una pianta o ad una cavalla serviva un concetto universale di bellezza che non si poteva trovare nella realtà contingente e particolare. Con la dialettica la terminologia e la sintassi mutano completamente struttura. Si passa quindi da una cultura fondata sulle immagini e sulla mimesi ad una cultura che non pensa più per immagini e miti ma per concetti, che necessita di una rivoluzione della comunicazione che sfocerà appunto nella cultura della scrittura. Serve precisare, come sottolinea Reale, che non è tanto il modo di pensare che dipenderebbe dalla forma della comunicazione e che esso muterebbe solamente con il mutare di questa. Non è quindi l’imporsi della struttura della comunicazione mediante la scrittura che avrebbe mutato completamente il modo di pensare dei Greci. In altri termini non è la nascente prosa connessa con la nascita della scrittura che avrebbe creato il modo di pensare per concetti astratti e avrebbe così portato al superamento del modo di pensare per immagini tipico della poesia e della comunicazione nell’ambito dell’oralità. In realtà è proprio l’emergere, nell’ambito dell’oralità, di un modo di pensare per concetti e della connessa nuova sintassi che ha reso necessario il nuovo modo di espressione attraverso la scrittura. In sintesi, la rivoluzione è fondamentalmente duplice: in primo luogo quella avvenuta all’interno della oralità con il nascere di una nuova terminologia e una nuova sintassi che ha messo in crisi il consueto modo di trasmissione del sapere attraverso immagini e miti. Secondariamente quella causata dall’imporsi della scrittura, che sola si dimostrava in grado di codificare i pensieri ed i concetti astratti.

Una pericolosa inversione di tendenza

Siamo ormai testimoni da vari decenni di un’inquietante inversione di tendenza. Il noto linguista Tullio De Mauro aveva già suonato un campanello d’allarme in tal senso. Pare che in una ricerca della metà degli anni Novanta emerse che i giovani ginnasiali possedevano un vocabolario ridotto praticamente alla metà di quello evidenziato in una medesima ricerca dai loro coetanei della metà degli anni settanta. Negli ultimi vent’anni credo che la situazione non sia certo migliorata. Ho anzi l’impressione che sia peggiorata ulteriormente. Le cause di un tale declino sono diverse. In primo luogo, il diffondersi delle nuove tecnologie, in particolare l’uso dei telefonini. Il fatto che ormai i giovani, ma non solo loro, leggono sempre meno. Molti pensano che un vocabolario ricco e variato sia un lusso inutile, un’abitudine da intellettuali che desiderano mettersi in mostra con un linguaggio aulico e ricercato. Parlassimo come mangiamo faremmo meno fatica a capirci e ad esprimerci. Ma il problema è ben altro. Un insegnante della periferia parigina, citato da «Le Monde» dopo gli eventi di Charlie, ha detto: «Abbiamo nella nostra media inferiore un contingente di scolari che lotta con 500 parole. Su di loro, tutto scivola via. Sono incapaci di astrazione e si costruiscono un mondo semplice e manicheo». Comunque, per perorare la causa lessicale non c’è bisogno di scomodare la paura del fondamentalismo. È sufficiente rendersi conto, come ha dimostrato una ricerca di Benedetto Vertecchi, che un bagaglio lessicale consistente offre un modo vantaggioso ed economico di esprimersi, risparmiando sulle inevitabili e costose perifrasi cui deve dedicarsi chi un buon lessico non ha. Roberto Casati, in un articolo di qualche anno fa illustra bene il problema: «Frullare» è una parola, «ridurre in poltiglia» ne contiene tre; e se non sai cos’è la poltiglia? D. B.

 

Havelock E. A., Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Roma-Bari, Laterza, 1995.
Reale Giovanni, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, BUR, 2004.