Il diritto alla Felicità
La riflessione sulla felicità è una componente diremmo strategica, di fondo, della tradizione filosofica occidentale. Fin dall’antichità molti grandi uomini si sono interrogati sulla scelta del modello di vita da seguire per raggiungerla, su come organizzare la forma di Stato migliore, sulle premesse insomma spirituali e materiali, individuali e collettive, necessarie per ottenerla. Non sarà inutile ricordare subito che una delle risposte più antiche alla domanda di felicità dell’uomo è stato il consiglio di cercare di vivere in armonia con se stessi e con i propri simili, con la natura e l’ambiente circostante.
G. C., Loggia «Vetulonia» GOI, Massa Marittima (Revista massonica svizzera gennaio 2010)
Ha ancora un senso per noi oggi quella risposta antica? È ancora possibile o utile per l’uomo contemporaneo considerare fondamentale quella saggezza e quella virtù che i filosofi greci ponevano in cima alla scala dei loro valori, identificandole con la felicità? Gli ambiti esplorati dal pensiero filosofico sul tema della ricerca della felicità hanno compreso naturalmente nei secoli altri punti di vista e prospettive, estendendo questa ricerca ad ogni rapporto dell’individuo: con se stesso, con i suoi simili, col senso della vita e il suo rapportarsi alla possibilità di “una via” alla felicità, che non per tutti era naturalmente la stessa e nello stesso modo raggiungibile. Nei percorsi mutevoli che segue oggi l’immaginario collettivo della felicità, uno degli elementi che viene forse a mancare è quell’uso del tempo per secoli considerato necessario a porre le basi di un meditato confronto personale con il problematicismo vitale, e insieme porre le basi di una razionale aspettativa di felicità “possibile” per ognuno. Questo percorso mentale tradizionale è stato ormai quasi completamente sostituito da un fragile involucro edonistico, in particolare alimentato da un indiscriminato incitamento al consumismo, nel quale la componente spettacolare della vita, il suo aspetto esteriore ed abbagliante, sovrasta ed impedisce, forse, anche un sereno esame interiore delle proprie aspettative e capacità, come anche quello dei propri limiti; il porsi di fronte alla vita e in relazione agli eventi non come oggetto trascinato dalle mode ma come soggetto costituito e sorretto soprattutto da ideevalori costanti nel tempo.
Percorsi diversi
Molto dipende, in tema di felicità, da quello che vogliamo, o meglio da quello che ciascuno considera equo ottenere dalla vita, e quindi pretende come diritto, sotto quei riguardi che siamo abituati a considerare come “uno stato di felicità”, spesso coincidente con un quadro di certezze oggi venute meno. Ma, naturalmente, anche da queste apparentemente ovvie considerazioni nascono molteplici problemi che investono piani più terreni e meno astratti della ricerca della felicità, e che è l’ambito appunto del “diritto alla felicità”: è facile, infatti, parlare di felicità a chi possiede almeno il minimo indispensabile per vivere; chi non lo possiede ha del concetto di felicità una visione assai meno astratta e molto più limitata. Non parliamo poi di un diritto alla felicità. Infatti, se la felicità, in senso generale, si ottiene più facilmente in un quadro economico, sociale e culturale migliore, allora questa ricerca è un fattore anche politico, che può presupporre una serie d’elementi fondanti il cui obiettivo è il raggiungimento appunto di quello che potremo chiamare “diritto alla felicità”. Facile capire come partendo da qui possano essere nate correnti di pensiero che hanno seguito e seguono percorsi diversi nella ricerca della felicità. Dal materialismo all’idealismo, alla new age, l’analisi piena di sfaccettature della più ambita condizione umana ha coinvolto grandi uomini e grandi speranze d’ogni epoca. La storia della filosofia è essenzialmente la storia della ricerca della felicità per l’uomo. Ma c’è anche un altro aspetto non meno importante della questione: i modelli di riferimento e i confini di questo “stato di felicità”, e dunque la sua possibilità di condizionamento da parte dell’uomo animale politico, cambiano man mano che l’educazione, la cultura, la società, la storia in una parola mutano; allo stesso modo con cui, col tempo e col mutare della società, cambiano i confini di quella che siamo abituati a chiamare “morale”. C’è un ineludibile relativismo nella ricerca della felicità, dovuto appunto al cambiamento dei confini dell’idea di felicità nel tempo e nello spazio, nella politica e nella religione: perché la felicità di Platone e d’Aristotele, d’Epicuro e di Seneca, di Sant’Agostino, Santa Caterina e San Bernardino, quella di Muratori e di Kant, di Bacone e Campanella, di Rousseau e Verri, di Russell e Wittgenstein, tanto per citare solo alcuni che si sono misurati col problema, e quella di ciascuno di noi, insomma, non è la stessa. Ognuno ha avuto ed ha la sua idea di felicità, e il modo, che oggi non tutti e non sempre approveremmo, per raggiungerla. Di fronte agli sforzi compiuti in ogni tempo per definire la felicità e i suoi presupposti, c’è più di un motivo oggi per confrontarsi nuovamente con questa secolare riflessione, con in più quello che appare come un concetto nuovo e passo successivo nella scala evolutiva dei bisogni umani: ossia appunto il diritto alla felicità. È un diritto, che una parte dell’umanità creda di avere, ma non realizzato nemmeno dall’80% del genere umano. Perché non realizzato? Per ovvie disparità di condizioni di vita materiale; d’arretratezza culturale e politica; d’inaccessibilità al sapere, alle risorse naturali, alimentari, sanitarie. Condizioni, come si vede, in gran parte prettamente politiche, per non citare che gli aspetti più evidenti e non esattamente più “interiori”, questi assai più sottili e forse meno immediatamente condizionabili dall’esterno, ma altrettanto importanti per la felicità “privata” di ciascuno di noi. In queste condizioni obiettivamente negative per gran parte degli uomini d’oggi, il terzo millennio si apre invece con scenari politici, economici, sociali, culturali completamente mutati rispetto al XX secolo, quello definito “breve” dagli storici; un secolo che, nonostante la frequenza dei suoi drammatici avvenimenti, per la nuova complessità dei problemi affioranti sarà forse domani definito lunghissimo in confronto all’attuale. Non per raggiungere il diritto alla felicità, ma anche solo per porne basi che siano generalmente concepite e condivise, sarà probabilmente necessaria una riconsiderazione etica ed epistemologica dei ruoli e dei rapporti, dell’uomo con gli uomini e della sua attività con il mondo in cui vive. Serve, se mai è veramente possibile, soprattutto un’accelerazione etica della sua visione globale dell’esistenza, per contrastare con risposte compatibilmente rapide fenomeni sconosciuti finora, nati con processi complessi quali la globalizzazione, l’immigrazione su larga scala, le nuove malattie, l’inquinamento, il disagio esistenziale figlio di una certa società tecnologica e la perdita di riferimenti tradizionali, fenomeni ormai diffusi ovunque o almeno affioranti in vastissime aree del mondo.
Scienza, coscienza, educazione
Tutto questo diciamo senza naturalmente sollevare la discussione se l’etica abbia o no la funzione solo di definire le regole entro cui agire o anche di indicare in che cosa consista effettivamente la felicità e ne sancisca le condizioni minime per un suo diritto irrinunciabile. Questo diciamo senza neanche entrare nel merito d’argomenti di natura complessa posti al confine tra scienza e coscienza come la bioetica dove, se non vi saranno limiti eticamente condivisi, resterà affidato ad un semplice giudizio sostanzialmente morale, quindi modificabile con il tempo, il compito improbo di sbarrare la strada a svolte epocali e gravide d’incognite per l’umanità intera. Se non vi sarà questa riconsiderazione generale, comunque la si interpreti, che è anzitutto, come si sforzava di sottolineare ad esempio Mazzini parlando della presa di coscienza della nazionalità, un problema d’educazione, quindi d’istruzione, ma non solo (perché lo è anche di natura economica: di ridistribuzione delle risorse e degli accessi al sapere in particolare, d’effettiva compartecipazione alla vita democratica di un paese ad esempio) potrebbe verificarsi il caso (come lo fu l’età dell’oro per l’illuminismo), in cui l’era attuale venga ricordata in futuro, pur con tutti i drammatici limiti che si porta dietro, come l’era della felicità: basta poco in fondo, quando il presente appare gravido di pericoli, per idealizzare periodi relativamente più tranquilli, o almeno senza quei pericoli incombenti. È già accaduto. Ora, con un occhio al passato dell’uomo, ci permettiamo d’essere scettici sulla sua possibilità di raggiungere traguardi quali la felicità universale, mentre non lo siamo invece affatto per la possibilità di una graduale presa di coscienza del diritto alla felicità. Qui possiamo veramente fare qualcosa: perché le utopie come la felicità universale sono in realtà, come tante altre utopie del passato, il motore di quella storia dalla quale l’uomo sembra non aver mai imparato niente, come dimostrano molti errori ripetuti, ma che lo spinge irresistibilmente ad un processo ascensionale che si concluderà, a nostro avviso, o con la sua distruzione o con la sua elevazione verso un concetto d’umanità globale adeguato ai tempi e ai traguardi che gli si porranno sempre più davanti. Speriamo nella seconda soluzione, naturalmente, se non altro per l’istinto di conservazione della specie, ma non daremmo per scontato che le cose debbano andare così bene. Ricorderemo che ogni specie animale apparsa al mondo è comunque vissuta un tempo limitato, e noi siamo solo un poco più intelligenti delle altre: per questo forse potremmo durare di più, ma se non sapremo sfruttare quello che ci distingue veramente tra gli animali, ossia la coscienza di essere soprattutto ragione, le prospettive non saranno molto diverse da quelle che la natura ha predisposto per tutte le specie. Ammesso che le cose vadano bene, quali dunque dovrebbero essere le basi che potrebbero supportare concretamente quella presa di coscienza collettiva del diritto alla felicità? Socialmente, potremmo intanto lavorare per sostenere e diffondere l’elaborazione di nuove forme d’organizzazione politica e sociale sopranazionali; saranno indispensabili per garantire o denunciare le mancanze di quei diritti minimi all’esistenza dignitosa per tutti, costituenti un primo timido passaggio verso la meta finale.
Il terzo millennio
La capacità di cooperazione dell’uomo come conseguenza del suo essere sociale potrà essere messa a dura prova dagli immani problemi che sorgeranno in un prossimo futuro. La maggiore difficoltà è che tali problemi non sono definibili mediante le categorie storiche dell’esperienza alle quali siamo abituati a ricorrere analogicamente, in presenza di cesure epocali “ricorrenti” nella storia dell’uomo. Non entriamo qui naturalmente nella diatriba su “quanto” queste fasi ricorrenti siano state poi effettivamente correlabili nel passato, ma insomma è il metro di giudizio che era sostanzialmente uguale, pur cambiando la scala del fenomeno e la ricetta per affrontarlo. Oggi, a nostro parere, non è più così. Quello del terzo millennio è davvero un nuovo mondo, come quello che Colombo scoprì oltre 500 anni fa, e noi lo intravediamo appena. Mentre eravamo abituati a conoscere finora una rivoluzione per volta, ci troviamo oggi ad affrontare contemporaneamente un insieme di rivoluzioni in atto e per di più non solo puramente tecnologiche, ma anche economiche, sociali e culturali di portata mondiale. I mutamenti sociali legati alla nascita e all’affermarsi inevitabile di un’oligarchia del sapere imposta dalla tecnologia delle comunicazioni, tanto per fare un esempio, produrranno ghettizzazioni culturali su scala planetaria che emargineranno di fatto, come già si intravede, chiunque non sia parte integrante dei processi di creazione e gestione del potere e della new economy. Siamo di fronte ad una rifeudalizzazione in cui si creano nuovi vassalli, e anche, soprattutto, nuovi servi della gleba. Sono processi, quelli della globalizzazione economica e tecnologica, che non sappiamo ancora come controlleremo, con quali regole, mancandoci quegli strumenti di valutazione che l’esperienza storica ci aveva finora messo a disposizione. Non possiamo in sostanza comprendere la portata di ciò che avviene; non sappiamo dove andiamo né come dirigerci verso una qualsiasi meta. Sappiamo invece bene già tutti che la tecnologia da sola non basterà, in quanto ha in sé anche evidenti lati negativi, soprattutto per la maggior parte di coloro che formano la vecchia forza-lavoro massa di marxiana memoria. Che sarà di loro? Del loro diritto alla felicità? Sapere che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ha mai reso più felice chi non ce l’ha? E domani sapremo gestire questi problemi su scala mondiale? Sapremo gestire i sogni dei nostri simili del futuro, le loro aspettative? Altrimenti hanno perduto il loro diritto alla felicità prima ancora di nascere. È solo un esempio naturalmente, limitato all’aspetto materiale e non a quello spirituale, altrettanto importante e forse più, ma il problema c’è, e non crediamo che sarà uno dei minori. Sembrano a prima vista situazioni che abbiamo già incontrato in passato, a cui nonostante tutto in qualche modo si è risposto: la differenza è che oggi è forse un po’ più difficile rispondere. Cercando di concludere: sarà quindi più facile o più difficile, in futuro, essere felici? Si riuscirà a codificare una serie minima d’elementi condivisi che delimiteranno i contorni giuridici e morali del diritto alla felicità?
Crederci, volere, agire
Di pari passo all’aumento di una presa di coscienza dei diritti elementari dell’uomo (che non è ancora presa di coscienza al diritto alla felicità per tutti gli uomini), l’aumento esponenziale della conoscenza, la prevedibile diffusione delle conquiste della scienza e le sue possibilità di rendere certo più felici, almeno dal punto di vista materiale, le generazioni che verranno dopo di noi, dovrebbe farci intravedere una conclusione positiva, per quanto lontana, al cammino ascensionale dell’uomo verso questa conquista, teoricamente inevitabile. D’altra parte, se non vi saranno opportuni correttivi, anche psicologici, allo stato crescente di competizione che si instaurerà, crescerà altrettanto esponenzialmente il disagio esistenziale e l’infelicità. Le due facce del problema sono a nostro avviso ineliminabili e destinate a coesistere dialetticamente finché vivrà l’uomo ma, in fondo, credo che una parte del segreto del successo nel cercare di realizzare queste e passate utopie, allo stato iniziale, sia sempre quello di crederci, di non mollare mai, anche quando il traguardo sembrava e sembra irraggiungibile. L’alternativa è fra il credere che qualsiasi cosa l’uomo faccia sia destinato meccanicamente a crescere, anche nella ricerca di una cosa apparentemente impossibile come la felicità attraverso il preliminare riconoscimento del relativo diritto, oppure, come si è detto, rinunciare in partenza a combattere perché convinti che non vi sarà comunque un futuro. È la visione di chi non fa figli per la paura di quel futuro. Nel mezzo stiamo forse noi: cioè la volontà razionale di costruire una società migliore. Non perfetta, ma la migliore possibile. Se lo vorremo davvero. Di sicuro, se non sapremo o potremo rivoluzionare completamente il modello logico di relazioni che conosciamo, il rapporto uomo-macchina-ambiente ad esempio crescerà in maniera abnorme e distorta fino a costituirsi in problema di sopravvivenza per la stessa specie umana. Ci sarebbe posto allora per la felicità tradizionalmente intesa in un mondo invivibile ambientalmente, psicologicamente alienante, tecnologicamente disumanizzato e dominato dalla materialità pura o al contrario da un neo misticismo figlio della new age solamente? Ci aspetta un futuro cupo sul tipo di quello già anticipato in tanti film o racconti di fantascienza? Oppure “dovremo essere felici” per legge, solo perché un domani avremo magari alcuni di quei beni materiali che oggi non abbiamo ? Affermare la necessità razionale di un diritto alla felicità insomma farà di noi uomini felici? O piuttosto non renderà ancora più infelice chi sa che non potrà mai raggiungere ciò che quel diritto presuppone? Certo abbiamo il dovere di provarci, se non altro per i nostri figli, ma domani ci troveremo forse a rimpiangere quel concetto di vita vissuta armonicamente in pace con sé stessi e con il mondo circostante, basi di quella salute dell’anima che abbiamo intravisto abbozzare agli inizi della riflessione umana sulla felicità? È difficile dirlo oggi e personalmente sono piuttosto scettico: i paradisi sono sempre stati luoghi difficili a raggiungersi. In ogni caso la strada è sicuramente lunga, e se vogliamo tentare faremmo bene a cominciare a pensarci seriamente fin da ora. Resta il fatto, oggi come sempre, che assai difficilmente potremo dare risposte a chi ci ponesse delle domande: concepire una ricerca della felicità, prima ancora che un diritto alla felicità, rimane probabilmente anzitutto una somma di percorsi individuali in cui ognuno traccia la propria via da bravo geometra, utilizzando le risorse interiori di cui dispone per decidere se rinunciare a conquistare quei beni, spirituali o materiali, che ritiene siano le pietre miliari con cui scandire il “suo” viaggio verso “una” felicità possibile. Ma quello che si può fare attraverso gli strumenti della politica e del lavoro, dello studio e della scienza, dobbiamo farlo, perché forse questo è proprio il motivo per cui siamo qui su questa terra. Fosse vero, sarebbe veramente uno scopo sublime.